Pubblichiamo integralmente l’articolo apparso oggi su HUFFPOST, curato da Simone Finotti, dirigente scolastico.
Il testo offre una riflessione critica sulla preparazione culturale degli italiani, con un focus particolare sui risultati del Rapporto Censis 2024 e su una realtà in cui la regressione culturale appare evidente, non solo nei media, ma anche nel sistema scolastico. Interrogativi rilevanti sul futuro culturale del paese mettono in discussione la direzione che stiamo prendendo come società e come scuola.
“Quasi mezzo secolo fa, nell’ormai remoto 1975, nel corso di una lezione all’Università di Torino il decano dei pedagogisti italiani Francesco De Bartolomeis mise in guardia contro i rischi di una cattiva formazione e selezione degli insegnanti. Mezzo secolo fa il monito di De Bartolomeis :- “Pensate ai danni che un docente impreparato può causare nel corso della sua carriera”, disse grossomodo. “Sfornerà migliaia di impreparati; molti faranno gli insegnanti e, a loro volta, creeranno altre migliaia di impreparati. Bastano tre generazioni e saranno tutti ignoranti”.
Fu facile profeta e, fra l’altro, visse abbastanza a lungo per intravedere la catastrofica realizzazione del suo sinistro presagio. L’allievo di Ernesto Codignola, apprezzato fra gli altri da Adriano Olivetti, si è spento infatti lo scorso anno, qualche mese dopo aver soffiato sulla veneranda candelina n. 105, proprio mentre la fatidica “terza generazione” da allora (calcolando la media statistica di 25 anni) si accomodava su quei banchi universitari.
I dati (sconfortanti) del Rapporto Censis
I numeri, d’altra parte, non mentono. A certificare la sua lungimiranza arrivano oggi gli sconcertanti risultati del Rapporto Censis 2024, il 58° della serie, presentato nei giorni scorsi a Roma. Ebbene, i capitoli dedicati alla preparazione culturale dei nostri connazionali restituiscono un’immagine del Belpaese tra l’esilarante e lo sconfortante. A dire il vero qualcosa si poteva già avvertire guardando le interviste spot che, qua e là, compaiono in rete e nei programmi tv. E qualcosa si poteva già capire semplicemente guardandosi intorno, anche -purtroppo- nei corridoi delle scuole.
Rivoluzione francese… ma cos’è?
Ma vedere la nostra ignoranza messa lì nero su bianco e bollinata, quella insomma è tutta un’altra cosa. Iniziamo dai capisaldi, come l’immortale 1789 che segna l’inizio della Rivoluzione francese. Una svolta epocale per l’Europa e per il mondo, per la democrazia e l’età moderna. Peccato che la metà degli interpellati non sappia nemmeno indicare il secolo in cui è avvenuta. Robe da francesi, se la vedano loro, si dirà. Così come affare dei tedeschi dev’essere la caduta del Muro di Berlino, evento ignoto al 30% del campione nostrano, e sciovinistico vanto degli americani lo sbarco sulla Luna che, al netto delle inossidabili frange negazioniste, per il 42% è cosa ancor più oscura del lato buio del nostro satellite.
Montale tra Viminale e Palazzo Chigi
Il punto è che se si passa ai fatti di casa nostra le cose non vanno molto meglio: quasi un terzo degli italiani non sa collocare l’Unità nazionale o l’entrata in vigore della Costituzione, oltre 4 su 10 pensano che l’Infinito sia opera di Gabriele d’Annunzio e il 35% colloca Eugenio Montale alla Presidenza del Consiglio all’epoca, più o meno, di De Gasperi, Fanfani e Scelba. Ma si sa, certi autori (anche se ormai sono 100 anni dalla silloge d’esordio Ossi di seppia) si studiacchiano fra una pausa e l’altra negli ultimi assolati giorni della quinta liceo, quando la mente è già alla maturità e alle meritate vacanze al mare che seguiranno l’inevitabile promozione (all’Esame di stato passa ormai il 99,9% degli studenti nonostante poi il 43,5% dei diplomati fatichi a comprendere testi scritti in italiano).
Vecchie italiche glorie…
E allora, per far cadere gli ultimi alibi, scomodiamo pure i “mostri sacri”: per scoprire che quasi 20 italiani su 100 non si sentono di escludere che Pascoli abbia firmato i Promessi Sposi e il 6% non ritiene che la Divina Commedia sia opera di Dante (sarebbe interessante sapere a chi la attribuiscono). Le arti figurative sono da sempre un altro italico orgoglio? Il nostro Rinascimento è ammirato in tutto il mondo? Certo, peccato che per il 32,4% la Cappella Sistina potrebbe essere stata affrescata da Giotto o Leonardo da Vinci, ma certamente non da Michelangelo. E il nostro inno nazionale, che accompagna per i Continenti le imprese sportive dei nostri idoli? Per 36 intervistati su 100 è opera di Giuseppe Verdi. E di chi altro sennò?
L’ignoranza paga?
Ce n’è abbastanza per parlare di “subcultura di ritorno”. Ma tutta questa ignoranza è in qualche modo compensata dalla crescita del benessere (almeno materiale)? In altre parole, si può sostenere -come fanno tanti Soloni ben distanti dalla lezione di De Bartolomeis- che gli italiani, buttati gli abbecedari, i vocabolari, i libri di storia e di letteratura dalle alfieriane finestre, si siano dedicati ad attività più immediatamente “spendibili” (altro termine abusato) e patrimonialmente arricchenti?
Sembra proprio di no
A quanto pare proprio no, visto che, sempre stando al Rapporto, negli ultimi vent’anni (dal 2003 al 2023) il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in termini reali del 7% e negli ultimi dieci (tra il secondo trimestre del 2014 e il secondo trimestre del 2024) anche la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%. Ma ciò che appare ancora più sconfortante è il tramonto delle speranze, di quell’idea che il domani possa essere migliore dell’oggi, e che la vita dei nostri figli possa essere più ricca di soddisfazioni della nostra: oltre 85 italiani su 100 (l’85,5%, per l’esattezza) ritiene difficilissimo salire nella scala sociale.
La memoria, questa sconosciuta!
Ora: non è che -come operatori scolastici- stiamo sbagliando qualcosa? Non è che aveva ragione il compianto De Bartolomeis? La scuola non interessa, non appassiona, non incuriosisce. Ma è ancora in grado di fare cultura? Riesce a proporre metodi efficaci e convincenti? Pretende abbastanza dalle giovani generazioni? D’accordo non mandare più a memoria date, opere, luoghi, numeri. D’accordo non incaponirsi più sulle poesie da recitare, sui re e gli imperatori di Roma, sui mari, i monti e gli oceani, sugli affluenti dei fiumi, sulla suddivisione dell’arco alpino e sui leggendari “muschi e licheni” che hanno costellato il paesaggio didattico della nostra infanzia. Concentriamoci sulle competenze, sacrosanto. Sulle soft skills, importantissimo (ammesso che siano insegnabili). Ma ciò non significa dimenticarsi di voler sapere. Sapere aude, diceva qualcuno. Eppure non occorre essere cultori di neuroscienze per scoprire che proprio la memoria, in virtù della nostra peculiare organizzazione sinaptica, ha un ruolo essenziale nella costruzione della nostra identità, come individui e come gruppi umani.
Operazioni in colonna? C’è la calcolatrice. Ricerche? C’è l’Ia, che a sua volta sta soppiantando Google e Wikipedia. Pensierini, temi e argomentazioni? C’è chatgpt. Disegno tecnico? C’è Autocad. Ti beccano a copiare? Nega, nega sempre, anche davanti all’evidenza. Organizziamo una gita? C’è Google maps e vi assicuro -vita vissuta- che 8 studenti su 10 non sanno affatto se per fare Milano-Torino si debba svoltare verso est o verso ovest. E la cosa peggiore è che non c’è nemmeno più la curiosità di sapere (e saper fare). Quel desiderio culturale che la scuola dovrebbe coltivare e stimolare.
Quelle coccole educative che non fanno il bene di nessuno
Va bene, agevoliamo studenti (e aspiranti docenti) con strade lastricate di recuperi, interrogazioni programmate, sconti su sconti, concorsi passati a suon di ricorsi, spudorate conferme valutative elargite anche solo per il quieto vivere: la scuola -ormai a tutti i livelli- non è più selettiva e poi si sa, le famiglie agguerrite sono alle porte, l’avvocato -anche lui spesso sprovveduto- ha sempre il dito pronto sul griletto della diffida e del ricorso e, diciamolo, molti dirigenti dormono sonno più tranquilli quando le percentuali dei respinti si riducono a residui impercettibili. Togli difficoltà, rimuovi (sani) ostacoli, coccola l’autostima perché altrimenti poverini. E quando arrivi all’Esame di Stato ti si chiede l’impossibile (versioni da Demostene e Platone, prove di matematica e di economia di livello universitario) per poi, il più delle volte, accontentarsi del ridicolo.
Alla fine cosa resta?
La scuola perde pezzi, lo sappiamo da tempo. Si è addormentata e il suo sonno genera mostri. Il timore è che sia tramontato un modello senza che un altro, altrettanto credibile, lo abbia sostituito. E si procede per aggiustamenti, pezze di qua, toppe di là, cambia, rammenda, sostituisci, tappa la falla. Ma alla fine cosa resta della Nave di Teseo? “