La pasticciata riforma costituzionale del Titolo quinto, nel cui alveo vanno rilette disposizioni risalenti e interpretate quelle attuali sulla ripartizione delle competenze tra governo centrale e autorità locali nelle connesse materie di sanità e istruzione, rende arduo – anche per una giurisprudenza ondivaga e una dottrina divisa – dedurre quali siano i torti e quali le ragioni che la ministra dell’Istruzione e il governatore della Puglia si rinfacciano (i primi) e rivendicano (le seconde).
Tuttavia alcune considerazioni ci sembrano assistite da un minimo di fondatezza o quantomeno meritevoli di una riflessione:
- Nessuno si sogna di contestare l’assoluta, ordinaria, predominanza della didattica in presenza sulla didattica in remoto, il ricorso alla quale – anche in via esclusiva in tempi di drammatica recrudescenza pandemica – si pone come alternativa alla didattica dell’assenza ovvero al nulla: beninteso, se si stima prevalente il bene della salute.
- Pur con tutti i limiti di una normativa resa vieppiù confusa da un’endemica litigiosità tra Stato, regioni ed enti locali, ben lontani dall’assumere e praticare il principio di leale collaborazione, non può dubitarsi – in virtù della legge 833/1978, del recente decreto legge 6/2020, dello stesso Dpcm del 3 novembre2020, ultimo pomo della discordia – che presidenti di regione e anche sindaci possono assumere nei territori di pertinenza misure più restrittive in tema di emergenza sanitaria rispetto alle disposizioni del Governo, allegando una puntuale e logica motivazione. E’ quello che è avvenuto in diverse regioni e non solo in Puglia, dove qui alcuni sindaci, pur dopo l’emanazione del Dpcm poc’anzi citato, hanno addirittura chiuso le scuole e quindi reso impossibile pure la didattica a distanza integrata;
- Il presidente della regione Puglia, pur dovendosi districare tra contrapposti provvedimenti cautelari monocratici emessi dal medesimo TAR, poteva e può legittimamente reiterare con ordinanza provvedimenti più restrittivi rispetto a quelli contenuti nel DPCM del 3 novembre 2020.
Se dunque, assicurata la DAD nelle scuole secondarie superiori, si valuta che la presenza a scuola nel primo ciclo comporti un aggravamento dell’epidemia tale da far esplodere il sistema sanitario, si assuma la responsabilità politica – per agire doverosamente la quale è stato rieletto ed è ben remunerato – di ordinare la sola didattica a distanza.
Non può consentire alle famiglie di esercitare una libera scelta se mandare i figli a scuola, e contestualmente tramite Facebook dissuadendoli dal farlo, o tenerli in casa a titolo di assenza giustificata.
E non può ingerirsi nell’autonomia organizzativo-gestionale dei dirigenti scolastici costringendoli agli ennesimi spericolati equilibri ad horas per mettere su fragilissimi piedi un servizio a – più o meno estemporanea – domanda individuale, è stato detto una scuola à la carte.
- Nel rispetto dei ruoli e delle connesse responsabilità dei decisori politici, è decisamente fuori luogo – e gravido di conseguenze anche penali per i destinatari – sollecitare i dirigenti scolastici a una vera e propria disobbedienza civile, di non applicare ordinanze regionali perché ritenuti apoditticamente prevalenti i provvedimenti del Governo da chi quotidianamente coltiva la massima visibilità mediatica. Ma senza rischiare nulla in proprio